ECONOMIA &LAVORO

 
 
 
 

Il diluvio è passato ma l'arcobaleno?

di Luca Paolazzi

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30 dicembre 2009

La recessione globale è terminata sei mesi fa. Anche se per molte famiglie e imprese è proseguita oltre e proseguirà ancora per non poco tempo. Perché non è stata una normale fase ciclica, cioè un momento che cadenza il respiro dell'economia, ma un passaggio epocale catalizzato e precipitato dalla crisi bancaria.
La risalita sarà lenta. Il risanamento dei conti delle banche non si è compiuto, tanto più che sono stati zavorrati dalle sofferenze causate dalla stessa recessione. Ma soprattutto non si può tornare dove si era prima semplicemente perché quel "dove" non c'è più.

Si fa risalire la crisi ai disastri della finanza e sicuramente i suoi comportamenti insostenibili, per essere morbidi, hanno prodotto danni enormi. Il primo dei quali è aver fatto crollare la fiducia e gelato la domanda per sei lunghissimi mesi a cavallo tra 2008 e 2009.
In realtà questa crisi, come tutte le crisi, affonda le radici in sottostanti forze telluriche che hanno accumulato energia e l'hanno sprigionata istantaneamente mutando il paesaggio e obbligando a ricostruire faticosamente. Progettando un nuovo futuro.

G li aggiustamenti che ora s'impongono con urgenza avrebbero dovuto avvenire ugualmente, magari più lentamente e meno consapevolmente. Se un merito si può assegnare a quel che è accaduto negli ultimi due anni è di aver accelerato il processo e svegliato le coscienze di governi, imprenditori e famiglie, facendo prendere loro atto che il mondo è cambiato.
Le forze del mutamento sono sintetizzabili nello spostamento del baricentro della crescita (anche se non ancora nelle dimensioni) dell'economia globale dai paesi avanzati a quelli emergenti, soprattutto asiatici. Il mondo economico ruoterà ora attorno all'asse del Pacifico, e non più a quello atlantico.
Ciò ha una serie di addentellati: il dollaro semi-detronizzato e in cerca di eredi; mercati dinamici più lontani e difficili da conquistare per i prodotti occidentali; emarginazione dell'Europa (Copenhagen l'ha sottolineata); materie prime che tenderanno a costare di più (e ciò privilegerà i beni che ne incorporano di meno); per scelta o per legge, comportamenti di spesa con maggiori vincoli ambientali; chiaro bisogno di un maggior coordinamento politico globale e il G-20 ne è un'embrionale risposta.

Il 2009, l'annata peggiore dell'economia globale dalla Grande Depressione, è ormai finito e oltre ai danni da riparare ci lascia questa consapevolezza. Davanti a noi si erge un mondo diverso e ciò dovrebbe bastare a chi si domanda dove ci porterà l'exit strategy dalla crisi. L'exit intesa non solo per le inevitabili correzioni di impostazione delle politiche economiche ma anche come adattamento dei comportamenti di tutti i protagonisti della scena economica. Solo la nebbia dell'incertezza e dell'insicurezza impedisce ancora ad alcuni di accorgersene.
Da sempre i motori dello sviluppo sono stati allargamento dei mercati e innovazione. E i mercati che si allargano sono quelli dei consumi delle immense popolazioni dei paesi emergenti. Mentre le innovazioni verranno dai promettenti filoni di applicazione delle tecnologie trasversali ai settori, come le biotecnologie, i nuovi materiali, la fotonica, la nano e la microelettronica.

Attrezzarsi a competere in questo scenario, andando a prendere la crescita là dove c'è ma contemporaneamente facendo leva sulle innovazioni per essere, come sempre, motore immobile dello sviluppo: il compito delle imprese italiane è antico nella missione, nuovo nei connotati. Conservando il vantaggio competitivo della flessibilità e della rapidità della risposta, dovranno essere più strutturate, nell'impostazione ancor prima che nella dimensione e nel patrimonio.
Per il paese, e quindi per chi lo governa o lo vorrebbe governare, si tratta di rendersi conto che l'Italia sarà sempre più piccola ma non per questo perdente. La sua vitalità e il suo saper fare, il tessuto sociale ancora solido, la consistenza del manifatturiero sono asset da far fruttare. Mettendo al centro le imprese, riconoscendo finalmente il loro ruolo di promotrici del mutamento. Che vuol dire dinamismo sociale, innalzamento del benessere, miglioramento delle condizioni di vita materiale e immateriale dei lavoratori, dei cittadini.

Solo preparandosi alle opportunità offerte dal dopo-crisi si accelera l'uscita positiva. Partendo dalla constatazione che l'Italia era in crisi prima della crisi, anche se una sua parte si stava aggiustando. Una crisi simboleggiata dalla lenta crescita, cioè dalla ricchezza negata, e dall'arretramento del Pil pro-capite rispetto al resto dell'area euro.
Negarlo ancora sarebbe l'imperdonabile errore che impedisce di accettare che le cause dell'italian disease sono tutte interne e nostrane e di rimuoverle con le riforme strutturali da troppo tempo al palo o ancora troppo timidamente abbozzate: infrastrutture degne di una nazione moderna, burocrazia che asseconda e non ostacola l'imprenditore innovatore, istruzione incentrata sul merito per tutti (docenti non meno che studenti), mercati senza più posizioni di rendita, ammortizzatori sociali che aiutino chi resta indietro incentivando al lavoro (e non al riposo pensionato) e alla procreazione.

  CONTINUA ...»

30 dicembre 2009
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